L’art. 1623 c.c. è una specifica disposizione in tema di affitto, che prevede che “Se, in conseguenza di una disposizione di legge, di una norma corporativa o di un provvedimento dell’autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto”.

Da un’interpretazione prettamente testuale della norma emerge chiaramente la ratio che il legislatore ha inteso perseguire, vale a dire la volontà – da un lato – di privilegiare la sopravvivenza del contratto nonostante un sopravvenuto mutamento del rapporto di forza tra le prestazioni e – dall’altro lato – di proteggere l’equilibrio del sinallagma, vale a dire quella corrispettività di una prestazione rispetto a quella della controparte.

Il presupposto per l’applicazione di tale articolo è l’emanazione di disposizioni di norme legislative o di provvedimenti dell’autorità che riguardino la gestione produttiva. Mentre, per interpretazione costante, nel concetto di gestione produttiva possono ricomprendersi non solo le attività industriali, ma anche quelle attività inerenti al settore dei servizi e degli scambi, non vi è unanimità di vedute sul fatto che il provvedimento debba incidere direttamente o meno sull’attività di una delle parti. Un esempio può aiutare a comprendere il nodo problematico. Per ipotesi, un provvedimento che contingenti il numero massimo di clienti che possono entrare contemporaneamente in un esercizio commerciale non incide direttamente sull’attività dell’esercente, ma solo indirettamente.

Ebbene, si ritiene – come già sostenuto da autorevole dottrina – che anche una disposizione che incida indirettamente sulla prestazione di una delle parti possa essere sufficiente per permettere a tale parte di invocare la tutela prevista dall’art. 1623 c.c., in quanto tale interpretazione estensiva è senza dubbio più coerente con la ratio della norma. Infatti, per “produzione” deve intendersi in senso generale lo sfruttamento delle attitudini produttive della cosa affittata; di conseguenza, può dirsi che il factum principis è rilevante ai fini di cui all’articolo in commento se e nella misura in cui incida sull’attitudine produttiva del ramo d’azienda, provocando un restringimento della libertà del diretto interessato di sfruttare quell’attitudine come preferisce e di scegliere i mezzi tecnici ed economici che reputi più idonei al fine di ricavare i frutti che l’azienda può generare.

Un ulteriore requisito per l’applicazione della disposizione in commento è che le suddette disposizioni normative vengano adottate in un momento successivo alla sottoscrizione del contratto, e che, a tale data, non fossero prevedibili. Tale ultimo aspetto non è precisato direttamente dalla norma, ma può evincersi dagli insegnamenti delle (invero, poche) pronunce giurisprudenziali riguardanti l’art. 1623 c.c., le quali hanno precisato che tale norma deve essere considerata una fattispecie particolare di eccessiva onerosità sopravvenuta, ispirata ai medesimi criteri che sono a fondamento dell’art. 1467 c.c. e, di conseguenza, anche all’imprevedibilità della sopravvenienza.

Dovendosi comunque soppesare i termini utilizzati dal legislatore, la disciplina dell’articolo in esame pare distanziarsi, seppur lievemente, dai requisiti previsti dalla norma in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta.

Se, infatti, l’art. 1467 c.c. fa riferimento ad una prestazione divenuta “eccessivamente” onerosa, l’art. 1623 c.c. qualifica il sacrificio della parte come “notevole”: da tale differenza terminologica, pare debba dedursi che lo squilibrio tra le prestazioni richiesto dall’art. 1623 c.c. possa essere anche meno grave e consistente di quello necessario per configurare un caso di eccessiva onerosità sopravvenuta.

Da ultimo, l’incidenza delle disposizioni normative sul rapporto deve essere tale per cui alle perdite di una parte corrispondano vantaggi dell’altra. 

Cercando di rapportare tutto quanto sopra con la situazione di grave crisi che stiamo vivendo, ad oggi non sono state ancora emanate le disposizioni di dettaglio relative alla fase 2 (né, tanto meno, alla fase 3) dell’emergenza Covid-19 e, pertanto, mancano oggi i presupposti per azionare in via diretta ed immediata una richiesta ai sensi dell’articolo 1623 c.c. che, come detto, è legata all’emanazione di un provvedimento di legge o di un regolamento il quale comporti una perdita notevole a carico di una parte e un vantaggio a beneficio dell’altra.

Quest’ultimo aspetto è sicuramente quello più problematico a livello interpretativo.

Se non v’è da dubitarsi che eventuali futuri provvedimenti restrittivi adottati dalle Autorità possano configurare una perdita notevole in capo agli affittuari, appare maggiormente difficoltoso comprendere se e quale correlato vantaggio potrebbe ottenere il concedente.

Preliminarmente, giova sottolineare che vi è chi, in dottrina, ha tentato di sostenere che all’aggravio della prestazione di una delle parti debba corrispondere necessariamente un vantaggio per la controparte, alla luce del fatto che quest’ultima continua a percepire la medesima utilità a fronte di una prestazione che nei fatti ha perso valore per la controparte. Tuttavia, tale impostazione non ha riscosso particolare successo ed è stata fortemente criticata da altri autori. Pertanto, pare che non possa prescindersi da un’analisi in concreto, volta a verificare l’esistenza sia di uno svantaggio che di un correlato vantaggio in capo alle parti a seguito dell’evento perturbatore.

Ebbene, si ritiene che tale correlato vantaggio potrebbe essere argomentato sotto un duplice punto di vista.

È molto probabile, se non certo, che i provvedimenti legislativi che verranno adottati prevedranno – tra gli altri – un distanziamento tra i clienti che ridurrà il flusso di consumatori all’interno dei rami aziendali. Questo costituirà indubbiamente un pregiudizio per l’affittuario. Ma quale vantaggio ne trarrebbe il concedente?

Ad avviso di chi scrive, nessuno. È pur vero che l’affittuario, in sede di negoziazione del corrispettivo di affitto avrà fatto affidamento su un determinato volume di clienti, ma si ritiene che la riduzione dei flussi di clientela – per quanto imposta dalle Autorità – e il conseguente calo di fatturato siano da ricondurre al cosiddetto rischio di impresa dell’affittuario.

Sotto un altro punto di vista, tuttavia, è verosimile ritenere che i suddetti provvedimenti legislativi comporteranno indirettamente una generale riduzione del valore di mercato e dei canoni di affitto degli immobili ad uso commerciale.

Questo punto appare essere di maggiore interesse, considerato che il corrispettivo di un contratto di affitto di ramo d’azienda, normalmente, viene concordato tra le parti sulla base di alcuni indici, tra i quali il prestigio della location, del suo valoree in generale della zona/posizionamento ove essa si trova: chiaramente, il corrispettivo di affitto per un’azienda sita nella piazza principale di una grande città non sarà uguale a quello per un’azienda che si trovi in una via secondaria di periferia.

Alla luce di quanto sopra, qualora un operatore commerciale corrisponda un canone fisso, appare maggiormente sostenibile in diritto che i suddetti provvedimenti restrittivi possano comportare sì uno svantaggio per l’affittuario (che pagherebbe un canone superiore rispetto al valore di mercato), ma anche un correlato vantaggio per il concedente, che in questo caso otterrebbe un canone superiore a quello di mercato.

A sostegno di ciò, inoltre, si consideri anche che – in tale eventualità – il concedente si troverebbe a percepire dalla propria azienda un corrispettivo – e quindi un vantaggio – che in nessun altro modo riuscirebbe ad ottenere: né conducendola direttamente, né tantomeno affittandola in quel momento e a quelle condizioni di mercato.

In questi termini, pertanto, si potrebbe quantomeno sostenere un’attivazione dei meccanismi rimediali fissati dall’articolo 1623 c.c. che consistono in una riduzione ad equità del canone, ovvero – secondo le circostanze – nello scioglimento del contratto.

Da ultimo, vale la pena sottolineare che la Corte di Cassazione ha statuito che l’articolo 1623 c.c. è imperniato sulla richiesta della parte che lamenti di aver subito una perdita contro un correlativo vantaggio dell’altra, rimessa al suo apprezzamento. Secondo il Supremo Collegio, nell’economia della previsione codicistica, nessun potere ufficioso è dato al giudice il quale dovrà provvedere sulla base della domanda proposta e a far data dalla sua proposizione: gli effetti della decisione del giudice, pertanto, decorreranno dalla data di proposizione della domanda giudiziale e non, retroattivamente, dal momento in cui si sia verificata la sopravvenienza.

Il ragionamento sopra effettuato è senza dubbio valido in linea teorica. Tuttavia, deve purtroppo constatarsi una sostanziale scarsità di precedenti giurisprudenziali sul tema, che rende assai arduo comprendere se e come le corti ammetteranno l’applicabilità di tale articolo alla difficoltosa e grave situazione che stiamo vivendo.