A seguito dell’emergenza epidemiologica provocata dalla diffusione del COVID-19 e dell’esistenza del rischio di contrarre l’infezione sul luogo di lavoro, l’INAIL è intervenuta più volte per chiarire quali tipologie di assistenza e tutela risultano applicabili ai lavoratori assicurati. L’obbiettivo del presente contributo è far chiarezza sul tema, evidenziando qualche problematica.

Nella circolare 13/2020 l’INAIL ha chiarito che, come accade per tutti i casi di malattie infettive e parassitarie contratte in occasione della prestazione lavorativa, i casi di infezione da COVID-19 contratta nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa rientrano nella categoria degli infortuni sul lavoro.

Tale classificazione, come naturale, ha richiamato l’attenzione sull’accertamento del nesso eziologico e causale intercorrente tra lo svolgimento dell’attività lavorativa e l’avvenuto contagio. L’accertamento di tale nesso può produrre conseguenze rilevanti in capo al datore di lavoro: infatti, così come accade per qualsiasi altro infortunio sul lavoro e salvo smentite da parte di successive norme interpretative, qualora dovesse venire accertata la responsabilità civile del datore di lavoro per la violazione degli obblighi discendenti dall’art. 2087 c.c., l’INAIL, ex art.  11 del DPR 1124/1965, potrebbe agire nei suoi confronti al fine di richiedere un rimborso delle somme a qualsiasi titolo erogate a titolo di indennità e di spese accessorie nei confronti del lavoratore.

La circolare in commento ha acceso non pochi campanelli d’allarme tra datori di lavoro e addetti ai lavoratori, al punto che l’INAIL, successivamente, è intervenuta con una nuova circolare 22/2020 in cui ha chiarito che  le patologie infettive sono da sempre inquadrate come infortunio sul lavoro e, pertanto, è fuor di dubbio che il mero riconoscimento dell’infortunio sul lavoro non agevola in alcun modo l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, né crea una presunzione in tal senso. Anche il Ministro del Lavoro è intervenuto a chiarire che l’interpretazione secondo la quale si sarebbe verificato un aggravamento della posizione dei datori di lavoro, esponendoli maggiormente al rischio di essere ritenuti responsabili per i contagi contratti dal lavoratore in ambiente lavorativo, non è corretta.

Alla luce di quanto precede è oggi possibile trarre le seguenti conclusioni.

In tutti i casi di contagio, l’onere della prova in merito alla dimostrazione del nesso tra prestazione lavorativa e contagio ricade direttamente sul lavoratore e sull’INAIL. Di conseguenza, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si possa comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle sue mansioni, l’accertamento medico-legale dovrà seguire l’ordinaria procedura delineata dall’INAIL.

A parere di chi scrive, il punto su cui concentrarsi dovrebbe però essere un altro e riguarda gli oneri procedurali con cui i datori di lavoro devono quotidianamente confrontarsi.

Infatti, laddove venisse accertata l’esistenza di un nesso causale tra il contagio e lo svolgimento dell’attività lavorativa, la responsabilità del datore di lavoro sussisterebbe solo nel caso in cui venisse anche accertata l’esistenza di un secondo nesso causale: vale a dire quello tra l’avvenuto contagio e la violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi ex art. 2087 c.c. e, dunque, delle norme poste a tutela dell’igiene e della sicurezza sul lavoro.

Ed è proprio il datore di lavoro che, al fine di andare esente da responsabilità, dovrà provare di avere adottato tutte le misure possibili per evitare il verificarsi dell’evento e, conseguentemente, del danno.

Questo il punto!

L’INAIL ha fornito indicazioni operative che non modificano il preesistente panorama dal punto di vista “legale”. In particolare non ha fatto altro che chiarire in quali casi si presuma che il contagio da COVID-19 avvenga sul luogo di lavoro (ad esempio, operatori sanitari e personale a contatto con il pubblico), precisando che questo non possa comportare una responsabilità oggettiva del datore di lavoro, che rimane dolosa o colposa.

Pertanto, se i datori di lavoro rispetteranno i protocolli, non incorreranno in responsabilità civili o penali.  

Dal punto di vista dei datori di lavoro, il vero problema da risolvere riguarda i protocolli: servono protocolli più semplici e chiari, che non lascino all’interpretazione ed alla creatività del singolo tutto lo spazio che ad oggi gli viene riconosciuto.

Pensiamo, ad esempio, a come calcolare il numero massimo di clienti che possono entrare negli esercizi commerciali: per gli spazi superiori ai 40 mq non c’è un criterio preciso. Chi e in che modo stabilisce qual è il numero che consente, in caso di contagio, di dimostrare che i clienti non erano troppi e che quindi si sono rispettate le regole di diligenza per evitarlo?