Trascorso più un mese dalla scoperta del primo focolaio di COVID-19 in territorio italiano, la gravità dell’emergenza sanitaria nazionale causata dalla pandemia è andata di giorno in giorno crescendo, con le terribili e tristemente note conseguenze per la popolazione. In risposta, sin dagli ultimi giorni di gennaio, le Pubbliche Autorità hanno cercato di arginare gli effetti dello tsunami invisibile abbattutosi sulla Penisola, attraverso – tra le altre cose – l’emanazione di norme tese dapprima a favorire e, successivamente, ad imporre il distanziamento sociale tra i cittadini.

A partire dall’Ordinanza del Ministero della Salute n. 26 del 30 gennaio 2020, l’attività legislativa statale è stata frenetica, con l’emanazione di quasi quaranta provvedimenti tra, Ordinanze ministeriali, Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e Decreti-legge. La proliferazione normativa finalizzata a limitare le possibilità di contagio ha avuto tra le proprie conseguenze anche quello di limitare molti dei diritti riconosciuti dalla Costituzione, tra cui la libertà di circolazione all’interno del territorio nazionale (art. 16 Cost.), il diritto di esercitare in pubblico il proprio culto (art. 19 Cost.) e il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.).

La compressione dei diritti dei cittadini è giustificata dalla necessità di tutelare due diritti costituzionali fondamentali: il diritto alla vita (art. 2 Cost.) e il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.).

Allo stesso modo e per le medesime ragioni, anche la libertà di impresa è stata limitata dai provvedimenti emanati. In particolare, le attività di commercio al dettaglio e di somministrazioni di cibi e bevande sono state sin da subito fortemente limitate, considerata l’alta possibilità di diffusione del contaggio in ragione delle modalità di svolgimento delle stesse. Infatti, da un lato, all’interno dei Comuni facenti parti della Zona Rossa veniva immediatamente prevista la sospensione di tutte le attività commerciali, ad esclusione di quelle essenziali. Dall’altro, nelle regioni e nelle provincie in cui il contagio si stava rapidamente diffondendo alcune attività commerciali venivano sospese, mentre ad altre venivano imposte misure di contingentamento o la chiusura in determinate fasce orarie o giorni della settimana, senza tuttavia imporre la sospensione delle attività.

Tali misure parziali venivano applicate per la prima volta con il D.P.C.M. 1 marzo 2020 alle Regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e alle Provincie di Pesaro-Urbino e Savona. Poi, con il D.P.C.M. 8 marzo 2020 le misure in questione venivano inasprite ed applicate ad ulteriori regioni e provincie, per poi essere applicate a tutto il territorio nazionale con il D.P.C.M. 9 marzo 2020. Infine, solamente con l’introduzione del D.P.C.M. 11 marzo 2020 veniva ordinata la sospensione su tutto il territorio nazionale delle attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande, fatta eccezione per le attività di vendita di beni alimentari e di prima necessità, consentendo la prosecuzione dei servizi di consegna a domicilio da parte degli esercizi di ristorazione.

Come si può notare, vi è stato un periodo di tempo in cui, pur non essendo stata ordinata la chiusura delle attività commerciali e di somministrazione di cibi e bevande, tali attività subivano forti limitazioni. A fronte di tali limitazioni e del continuo moltiplicarsi dei contagi in tutta Italia, è legittimo chiedersi se sugli imprenditori gravasse l’obbligo di chiudere al pubblico le proprie attività. In altre parole, è necessario comprendere se, nella situazione emergenziale in essere, era necessario che la libertà di impresa subisse la propria totale compressione, a favore del diritto alla salute dei propri dipendenti, della clientela e, più in generale, dell’intera collettività.

La risposta a tale domanda è di centrale importanza, in quanto, qualora gli imprenditori avessero deciso per la chiusura volontaria della propria attività, è necessario verificare se tale scelta fosse giustificata  in ragione della situazione di emergenza venutasi a creare. Laddove ciò venisse riconosciuto, gli imprenditori potrebbero giovarsi sotto il profilo contrattuale di istituti generali del diritto privato che escludono la responsabilità per inadempimento, quali l’impossibilità della prestazione sopravvenuta, ovvero l’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Innanzitutto, in linea di principio, una posizione giuridica tutelata come diritto fondamentale può essere legittimamente compressa solo qualora ciò risulti indispensabile per la tutela di altro interesse costituzionalmente garantito, e con misure che richiedano minor sacrificio per la posizione giuridica stessa, e comunque con i mezzi strettamente necessari per il conseguimento di un determinato scopo.

Nel bilanciamento tra esigenze produttive e tutela della salute dei lavoratori, quest’ultima deve trovare sempre una maggiore tutela. Infatti, è lo stesso articolo 41 della Costituzione a riconoscere che la libertà di impresa non è un diritto assoluto, ma è sottoposto ad alcune limitazioni, quali l’utilità sociale e la sicurezza dei consociati. Alla luce di ciò risulta evidente che, in nessun caso, il diritto alla vita e dei lavoratori dovrebbero essere sacrificati sull’altare della produttività aziendale. Ciò viene riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte di legittimità che, richiamando i principi enunciati dalla Corte Costituzionale, afferma che “le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori” e, di conseguenza, la rimozione da parte del datore di lavoro dei “fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali” (Cass. 58/2018).

Pertanto, anche solo la sussistenza del pericolo per la salute dei lavoratori giustifica la compressione del libero esercizio dell’attività economica, con la conseguenza di costringere gli imprenditori, in un caso di forte rischio sanitario come quello attualmente in corso, ad assumere tutte le misure necessarie a garantire l’esclusione del contagio tra i propri dipendenti. Qualora ciò non fosse possibile, l’imprenditore dovrà sospendere la propria attività sino a quando il rischio per i lavoratori non sarà cessato o potrà essere efficacemente controllato.

Applicando quanto sopra al caso di specie, nonostante le prescrizioni in tema di distanza di sicurezza e dispositivi di protezione, appariva, e appare tuttora, difficile per gli imprenditori garantire l’assenza del pericolo di contagio per i propri dipendenti. La scarsità di dispositivi di protezione individuale da fornire ai lavoratori e, altresì, la scelta delle autorità sanitarie di non eseguire a tappeto i tamponi faringei per la rilevazione

del virus sono condizioni che non possono escludere il rischio di contagio sul luogo di lavoro. Ciò è ancora più vero con riguardo alle attività per lo svolgimento delle quali i lavoratori dipendenti devono entrare in contatto con soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale, quali ad esempio le attività di vendita al dettaglio e di somministrazione di cibo e bevande, dove il datore di lavoro non può esercitare nei confronti dei propri clienti lo stesso controllo che esercita nei confronti dei propri dipendenti.

Le considerazioni esposte sopra con riferimento al diritto di salute dei lavoratori dipendenti devono essere applicate – mutatis mutandis – anche ai clienti degli esercenti delle attività di vendita e di somministrazione. Infatti, pur essendo soggetti esterni all’organizzazione aziendale del datore di lavoro, i clienti accedono ai locali commerciali da questo gestiti ed entrano in contatto tra di loro e con i dipendenti che vi lavorano. Ne consegue che anche i clienti sono esposti ad un pericolo di contagio dal fatto che le attività di vendita e somministrazione rimangano aperte al pubblico.

Sotto tale profilo, è sostenibile che l’imprenditore ha l’obbligo di non mettere in pericolo il diritto della vita e il diritto alla salute dei propri clienti, in quanto la libertà di impresa deve essere esercitata anche secondo il criterio solidaristico. Quest’ultimo non solo costituisce uno degli elementi essenziali per l’esistenza di gruppi sociali, ma, ai sensi del disposto dell’articolo 2 della Costituzione, assurge a principio basilare e necessario perché ai consociati venga efficacemente riconosciuta la possibilità di godere dei propri diritti costituzionalmente garantiti.

Sulla base di tale lettura, gli imprenditori erano chiamati a preservare il diritto alla vita e alla salute anche dei propri clienti e, nonostante non vi fosse nessuna diretta imposizione, può essere desunto il loro dovere di chiudere al pubblico le proprie attività commerciali. In caso contrario, come è effettivamente successo in molti casi, si è giunti ad una situazione paradossale dove, da un lato, gli imprenditori proseguono la propria attività di vendita o di somministrazione al pubblico, mentre quest’ultimo, cioè la clientela, è rimasto soggetto a stringenti normative che hanno limitato la libertà di lasciare le proprie abitazioni se non per inderogabili motivi o comprovate ragioni lavorative.

Anche l’interpretazione giurisprudenziale delle Corti amministrative è concorde nel ritenere che il diritto alla salute, per la sua altissima importanza, deve trovare la propria tutela anche secondo le logiche del principio solidaristico. Infatti, corrispondendo la salute ad un interesse generalizzato dell’intera collettività, ogni consociato ha il dovere di “non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri” (Consiglio di Stato, Parere 26 settembre 2017, n. 2065/17).

Alla luce di quanto sopra, dunque sembrerebbe che, in relazione al lasso di tempo in cui erano previste misure che limitavano parzialmente, senza disporne la sospensione, l’attività di vendita e somministrazione fosse giustificata la totale e volontaria sospensione dell’attività da parte dell’imprenditore al fine di garantire in maniera efficace il diritto alla salute, e che pertanto tale decisione  non costituisca una mera scelta imprenditoriale di opportunità, ma di scelta orientate alla difesa del diritto alla salute dei propri lavoratori e, in generale, della collettività.

Quanto sopra ha sicuramente delle ripercussioni a livello contrattuale. Si pensi ad esempio all’imprenditore che abbia la disponibilità dei propri locali commerciali in forza di un contratto di locazione o di affitto di ramo d’azienda e, a fronte dell’emanazioni delle limitazioni al alla propria attività di vendita al pubblico, decida di chiudere al pubblico; l’imprenditore può sospendere il pagamento del canone dovuto al locatore o al concedente? Se si ritenesse che tale scelta di chiudere sia dettata mere logiche commerciali, l’obbligo del pagamento del canone di locazione o affitto continuerebbe a gravare sull’imprenditore, con la conseguenza che la decisione di sospendere i pagamenti, risulterebbe un inadempimento. Invece, qualora venisse riconosciuto che la scelta di chiudere la propria attività al pubblico sia stata la giusta reazione alla situazione emergenziale dovuta e che sia stata dettata dall’obbligo di tutela del diritto alla salute in ragione dei doveri solidaristici, troverebbero applicazione le norme in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione e, dunque, si potrebbe sostenere la sussistenza dell’esimente dal’obbligo dell’imprenditore di corrispondere somme a titolo di canone di locazione o affitto.

Come anticipato, con il D.P.C.M. 11 marzo 2020 è stata ordinata la sospensione di tutte le attività di commercio al dettaglio e di somministrazione di cibo e bevande. Tuttavia, l’aggravarsi della situazione emergenziale comportava la necessità di adottare ulteriori misure finalizzate a limitare il contagio anche all’interno delle attività produttive.

Infatti, in data 14 marzo 2020 veniva emanato il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, frutto del confronto tra il Governo e le parti sociali accomunati dall’obiettivo prioritario di“coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”. Tuttavia, tali misure non venivano considerate sufficienti, soprattutto da parte dei Sindacati dei lavoratori, che richiedevano una maggiore tutela della salute.

La risposta a tali richieste è arrivata non solo dalla legislazione statale, ma anche da quella regionale. Infatti, oltre che dalla normativa costituzionale in tema di ripartizione della competenza tra Stato e Regioni, la possibilità di queste ultime di intervenire nell’attuale situazione di emergenza trova le proprie basi nel Decreto-legge 6/2020, convertito (con modifiche) con la Legge 13/2020, che, tra le altre cose, ha confermato il potere degli Enti locali nell’adottare misure di contenimento del contagio che risultassero maggiormente puntuali ed efficaci.

Sotto questo profilo, sono rilevanti gli articoli 2 e 3 del D.L. 6/2020 che disciplinano le modalità di attuazione delle finalità di contenimento del contagio di cui allo stesso D.L. 6/2020. Gli articoli in questione, da un lato, prevedono l’adozione di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente  della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale. Inoltre, riconoscono la possibilità per Regioni e Comuni di adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia a livello locale. Si tratta, dunque, di una legislazione di emergenza “a doppio binario”, che necessariamente prevede la collaborazione tra governo centrale e governo locale.

In una tale architettura, la lodevole volontà di coinvolgere gli Enti Locali nella gestione di una situazione emergenziale che interessa tutto il Paese deve fare i conti con il rischio di asimmetrie tra le disposizioni assunte a livello centrale per il tramite dei D.P.C.M. e quelle assunte a livello locale con ordinanza.

Sotto tale profilo, è emblematico il caso della Lombardia, dove con l’Ordinanza della Presidente Giunta regionale 21 marzo 2020 n. 514 sono state adottate misure per alcuni aspetti più restrittive di quelle contenute nei D.P.C.M. Trattandosi di misure limitative di diritti riconosciuti a livello costituzionale, quali ad esempio la libertà di movimento o di iniziativa economica privata, il conflitto tra la normativa regionale e quella statale ha provocato incertezza circa la fonte che disciplina, anche limitandole, alcune delle libertà fondamentali.

Per quanto riguarda le limitazioni allo svolgimento delle attività produttive, il contrasto tra legislazione statale e legislazione della Regione Lombardia è stato ulteriormente acuito con l’emanazione del D.P.C.M. 22 marzo 2020. Quest’ultimo infatti ha introdotto previsioni circa la sospensione delle attività produttive confliggenti con quelle della predetta Ordinanza regionale. Quest’ultima prevede mere indicazioni finalizzate alla tutela dei lavoratori dipendenti sul luogo di lavoro, senza prevederne la chiusura.

Al contrario, il D.P.C.M. 22 marzo 2020 ha introdotto una forte stretta al proseguimento delle attività produttive, alle quali viene imposta la sospensione, ad esclusione di quelle elencate all’interno dell’allegato 1 del D.P.C.M. stesso, ritenute essenziali. Inoltre, possono proseguire le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività del predetto allegato 1, e quelle a ciclo produttivo continuo, previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva.

Ai fini di correttamente delineare il contrasto tra le due normative è necessario, in primo luogo, identificare quali sono i presupposti normativi in forza dei quali la Regione

Lombardia ha potuto emanare l’Ordinanza in quesitone. Oltre al predetto D.L. 6/2020, le basi normative per l’emanazione di provvedimenti emergenziali da parte delle Regioni sono da rintracciarsi nell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833. Quest’ultimo infatti permette al Presidente della Giunta regionale di emettere, per ragioni relative all’igiene e salute pubblica, ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a al territorio di più comuni.

Con particolare riferimento all’attuale emergenza sanitaria, è stato riconosciuto che le ordinanze regionali ex articolo 32 della Legge 833/1978 possono limitare i diritti costituzionali se finalizzate alla tutela del diritto alla salute. Ciò è quanto affermato, da parte del T.A.R. Campania, adito in via cautelare o per l’impugnazione della Delibera Regionale che vietava l’attività sportiva in luoghi pubblici, che è stata ritenuta eccessivamente limitativa della libertà di circolazione dei cittadini. In risposta, il Giudice ha ritenuto che il diritto alla salute fosse da considerare superiore a quello della libertà di circolazione, soprattutto date le motivazioni sottese all’impugnativa – cioè quelle di esercitare attività fisica in spazi pubblici (T.A.R. Campania, Decreto Presidenziale n. 416/20)

Inoltre, sempre sotto il profilo della possibilità per le Regioni di emettere provvedimenti di urgenza per situazioni di crisi sanitaria, è previsto che i provvedimenti d’urgenza emessi siano effettivamente giustificati da situazioni contingibili e urgenti. In altre parole, è necessario che sussista una situazione che richieda l’applicazione di indispensabili misure emergenziali, le quali in ogni caso devono essere proporzionate agli eventi da fronteggiare. A tal fine, i provvedimenti regionali devono essere sorretti da adeguata motivazione, che dimostri altresì il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico.

Il principio sopra cennato trova sicuramente applicazione anche in relazione ai provvedimenti regionali emanati per ovviare all’emergenza relativa alla diffusione del COVID-19, come è stato già affermato in tema di sospensione delle attività scolastiche, nel ricorso promosso dal Governo avanti il T.A.R. Marche per ottenere la revoca dell’ordinanza regionale che imponeva la sospensione delle attività didattiche. Tale richiesta, secondo il Governo, era motivata dall’assenza dei requisiti necessari affinché la Regione potesse disporre provvedimenti d’urgenza che imponessero la sospensione delle attività didattiche. Il Giudice adito riconosceva che al momento dell’emanazione del provvedimento, non fosse stato accertato neppure un caso di contagio all’interno del territorio regionale. Di conseguenza, mancando i presupposti per l’applicazione di un provvedimento d’urgenza è stata disposta la sospensione in via cautelare del provvedimento regionale oggetto di impugnazione (T.A.R. Marche, Decreto Presidenziale n. 56/20).

Alla luce di quanto sopra, dunque si ritiene che la normativa d’emergenza regionale possa, e debba, essere utilizzata per fronteggiare l’attuale situazione, andando anche ad integrare le disposizioni emanate dal Governo. Tuttavia, laddove le disposizioni regionali fossero più stringenti di quelle previste dalla legislazione del Governo centrale potranno ritenersi legittime se giustificate dalla sussistenza di specifici presupposti di urgenza all’interno del territorio regionale, tali da rendere l’emergenza sanitaria più critica all’interno della regione e, dunque, giustificare il ricorso a ordinanze contingibili e urgenti che dispongano precetti peggiorativi rispetto a quelli derivanti dalla norma nazionale.

Al contrario, le norme regionali non potranno prevedere misure meno stringenti di quelle emanate dal governo centrale, in quanto quest’ultimo, in ragione della competenza all’adozione di norme di principio in materia di sanità pubblica.

La possibilità delle Regioni di intervenire con normativa d’urgenza solamente nei limiti delle proprie competenze legislative sembrerebbe essere confermata anche dal Decreto-legge del 25 marzo 2020, n. 19.

Tra le altre cose, tale recente previsione da un lato abroga e sostituisce il D.L. 6/2020, indicando all’articolo 1 una lista di misure che potranno essere adottate attraverso nuovi D.P.C.M. per fronteggiare e contenere la situazione d’emergenza per il COOVID-19. Dall’altro, definisce con maggiore chiarezza i limiti della possibilità delle Regioni di intervenire con legislazione d’urgenza nell’attuale crisi emergenziale. Viene infatti previsto che nelle more  dell’adozione  dei  decreti  del  Presidente   del Consiglio dei  ministri  per l’applicazione del nuovo D.L. 5/2020,  e  con efficacia limitata fino a tale momento, le Regioni,  in  relazione  a specifiche  situazioni  sopravvenute  di  aggravamento  del   rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una  parte  di  esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, individuando queste ultime tra  quelle  espressamente indicate al predetto articolo 1 del D.L. 19/2020. Nel fare ciò, tuttavia, le Regioni potranno agire esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e, altresì, senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale.

Applicando l’interpretazione sopra individuata ai contrasti tra l’Ordinanza del Presidente della Giunta regionale 21 marzo 2020 n. 514 e D.P.C.M. 22 marzo 2020, si deve propendere per la prevalenza della normativa regionale rispetto a quella emanata dal Governo centrale laddove detti disposizioni più stringenti, giustificate da una situazione emergenziale regionale specifica. Infatti, si può affermare che la normativa regionale può introdurre solamente misure più restrittive rispetto a quelle previste dalla legislazione del Governo, purché

  • tali misure rientrino tra le attività su cui le Regioni possono intervenire e, altresì,
  •  siano giustificate da specifiche motivazioni d’urgenza venute in essere all’interno del territorio regionale.

Applicato tale principio relativamente alla sospensione delle attività produttive, non prevista a livello regionale, si ritiene debbano trovare necessariamente applicazione le norme di cui al D.P.C.M. 22 marzo 2020 anche nell’ambito del territorio lombardo, in quanto più rigorose delle raccomandazioni contenute previste dall’Ordinanza del Presidente Giunta regionale 21 marzo 2020 n. 514. Una interpretazione diversa, infatti, risulterebbe lesiva, oltre che della ripartizione delle competenze tra Stato e Regione, del diritto alla salute dei cittadini lombardi, i quali non verrebbero tutelati nella stessa misura dei cittadini delle altre Regioni italiane.