L’articolo 1375 del Codice Civile prevede che “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.

Tale disposizione, pur breve ed apparentemente semplice, si è prestata nel tempo alle più ampie e svariate interpretazioni da parte degli addetti ai lavori, che hanno cercato di dare un più preciso contenuto alla così detta clausola generale della buona fede.

Riportiamo di seguito una sintetica analisi della citata norma mettendo in luce alcuni potenziali risvolti applicativi della stessa rispetto ai rapporti contrattuali pendenti nel corso della pandemia da Covid-19 e nel periodo successivo.

  • LA PORTATA PRECETTIVA DELL’ARTICOLO 1375 C.C.

Il dovere di eseguire il contratto secondo buona fede, ai sensi dell’articolo 1375 c.c., consiste nel dovere di reciproca correttezza e leale collaborazione tra le parti nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali.

I giuristi si sono da sempre divisi sulla portata precettiva di questa norma. Alcuni sostengono che essa sia fonte di obblighi autonomi e strumentali alle pattuizioni delle parti e che sia quindi integrativa del contratto, altri intendono la norma come mero criterio interpretativo utile a valutare se una parte sia inadempiente o meno.

La tendenza prevalente in giurisprudenza, ormai da diverso tempo, è quella di far prevalere la prima ipotesi, per cui il contratto, massima espressione dell’autonomia privata, nel nostro ordinamento non si riduce e non coincide con la mera volontà delle parti ma viene integrato dall’obbligo di esecuzione in buona fede (come anche da legge, usi ed equità ai sensi dell’articolo 1374 c.c.).

E infatti, secondo la Cassazione, la buona fede in executivis è da intendersi “come regola d’interpretazione ed esecuzione del contratto, ma anche come sua fonte integrativa” che “consente di preservare l’assetto giuridico ed economico stabilito dai contraenti anche in mancanza di regole negoziali specifiche” (Cass. 28987/2018). E ancora, la buona fede “è fattore d’integrazione del contratto” concorrendo alla “determinazione delle rispettive obbligazioni come indicato dall’ articolo 1375 cod. civ.” (Cass. 8619/2006).

  • BUONAFEDE E INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO

Il progressivo riconoscimento di un’autonoma portata precettiva del principio di buona fede e della sua funzione integrativa del contratto ha portato la giurisprudenza ad evidenziare la facoltà del giudice di incidere direttamente, in determinati casi, sul contenuto delle pattuizioni delle parti.

A tal proposito la Cassazione, nella sentenza 24 settembre 1999, n. 10511, ha affermato che l’intervento del giudice sul contratto non deve essere valutato in chiave di “eccezionalità bensì quale semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata”.

Il principio fondamentale della libera iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), secondo la Suprema Corte, deve dunque essere contemperato con i principi di correttezza e buona fede che sono espressione e corollari del principio di solidarietà (art. 2 Cost.).

In questa prospettiva, il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto consente al giudice di intervenire, in determinati casi, in modo sempre più incisivo sul regolamento contrattuale andando a sindacarne anche il contenuto.

Ancora, la Corte Costituzionale, nella sentenza 2 aprile 2014 n. 77, ha espressamente ammesso la “rilevabilità ex officio della nullità” della caparra confirmatoria pattuita dalle parti “per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa”. Il canone di buona fede dunque conferisce al giudice un autonomo potere di controllo sull’equità economica della caparra confirmatoria nonostante non vi sia alcuna norma di legge che preveda espressamente tale facoltà, come accade invece per la riduzione equitativa della penale ex articolo 1384 c.c.

  • LA RINEGOZIAZIONE DEI CONTRATTI DI DURATA. PACTA SUNT SERVANDA (SIC STANTIBUS REBUS)

Ciò premesso, qual è la rilevanza di queste considerazioni per i contratti di durata ai tempi del Covid-19?

Se un contratto di durata non prevede nulla in merito all’eventuale sopravvenienza di circostanze esterne eccezionali e imprevedibili (quali la pandemia da Covid-19), che comportano una concreta e significativa alterazione degli equilibri contrattuali, si potrebbe rinvenire nella clausola generale della buona fede nell’esecuzione del contratto il fondamento normativo di un vero e proprio “diritto alla rinegoziazione”?

Se infatti da un lato le parti non possono invocare strumentalmente le conseguenze economiche della pandemia per sciogliersi in modo incondizionato da tutti i contratti a sé sfavorevoli, dall’altro lato aprioristici e irragionevoli rifiuti di rinegoziare i termini contrattuali, a fronte di uno sconvolgimento economico di portata straordinaria, ben potrebbero considerarsi illegittimi perché contrari al dovere di solidarietà e alla buona fede nell’esecuzione del contratto che sono parti integranti dello stesso.

E infatti, se è vero che il brocardo fondamentale nei rapporti contrattuali è “pacta sunt servanda”, è parimenti vero che ciò non può che valere “sic stantibus rebus”, per cui, se un evento eccezionale sopravvenuto e non previsto dalle parti sconvolge l’equilibrio negoziale predeterminato, potrebbe anche dirsi doveroso procedere ad una rinegoziazione del contratto in buona fede che lo riporti al suo equilibrio originario.

Del resto, è questo che – in questi giorni – sta avvenendo a così tanti contratti di durata: una negoziazione in buona fede di alcuni loro termini essenziali.

Un accoglimento generalizzato da parte della giurisprudenza di tale principio, sarebbe di fondamentale importanza nell’attuale contingenza economica, figlia del Coronavirus. Infatti, il preannunciato ricorso di moltissimi contraenti allo strumento della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), che ha come esito naturale la cessazione del rapporto contrattuale, sarebbe quanto mai nefasto e inadeguato nelle attuali circostanze in cui la conservazione e la prosecuzione dei rapporti è vitale per sostenere il tessuto economico e produttivo ed è valore fondamentale da perseguire.

Non si ignora peraltro che, ai sensi dell’art. 1467 c.c. “La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”, tuttavia, una valorizzazione dell’art. 1375 c.c., può condurre ad un esito ulteriore e più ambizioso: in presenza di avvenimenti straordinari e imprevedibili che determinano un eccessivo squilibrio contrattuale, la parte pregiudicata ha il diritto a ottenere la rinegoziazione in buona fede del contratto e di ricondurlo ad equità.

In caso di irragionevole rifiuto, sarà possibile adire il giudice per ottenere il risarcimento del danno (per violazione dell’art. 1375 c.c.) e la riconduzione ad equità delle prestazioni contrattuali.

Fantadiritto?

È evidente che un intervento così ampio e invasivo del giudice nei rapporti tra le parti sarebbe “senza precedenti”, ma è altrettanto vero che la pandemia da Covid-19 è parimenti un “evento senza precedenti” che deve stimolare gli addetti ai lavori a ricercare soluzioni innovative che mirino a conservare il più possibile l’efficacia dei contratti esistenti e allo stesso tempo possano porre rimedio a sopravvenuti significativi squilibri contrattuali.