Il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre o sospendere l’attività lavorativa dei suoi dipendenti e, contemporaneamente, rifiutarsi di corrispondere loro l’ordinaria retribuzione senza incorrere in un’ipotesi di inadempimento contrattuale. Fatte salve ovviamente le ipotesi in cui tale condotta viene espressamente prevista e regolamentata dalla legge (pensiamo alla CIG, ad esempio).

Ciò sulla base di quanto previsto in generale dalla disciplina delle obbligazioni corrispettive, secondo la quale il rifiuto di eseguire la prestazione può essere opposto da un contraente soltanto se l’altra parte ometta di effettuare la prestazione dovuta, salva l’ipotesi della impossibilità sopravvenuta.

Esistono tuttavia, anche nell’ordinamento italiano, precise deroghe al principio che precede, deroghe che la pandemia in corso ha reso di stringente attualità.

Nel corso del rapporto di lavoro, infatti, lo svolgimento della prestazione lavorativa può divenire impossibile per cause che non sono imputabili né al lavoratore né tantomeno al datore, ovvero sia in presenza di un’ipotesi di causa di forza maggiore.

Il concetto di forza maggiore non è espressamente definito dal nostro Codice Civile ma, con il tempo, esso è andato sempre più delineandosi grazie all’intervento della giurisprudenza di merito e di legittimità.

In estrema sintesi, la causa di forza maggiore consiste in un evento straordinario ed imprevedibile, cogente al punto da rendere impossibile, e non semplicemente più oneroso, l’adempimento della prestazione.

Come ricordato dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, ex multiis, Cassazione civile sez. lav., 15/06/1984, n. 3577), “al di fuori dei casi in cui è prevista l’ammissione alla Cassa Integrazione Guadagni (nei quali il lavoratore percepisce la integrazione salariale per il periodo di sospensione dell’attività lavorativa), il potere del datore di lavoro di sospendere unilateralmente il rapporto, senza corrispondere la retribuzione al dipendente, sussiste quando la prestazione lavorativa sia legittimamente rifiutata dal datore i) per un fatto addebitabile al lavoratore (come nel caso d’inesattezza o inidoneità della prestazione offerta) oppure ii) in presenza di una causa di forza maggiore, derivante da eventi naturali o da provvedimento dell’autorità” – cd. “factum principis”- “o da fatto del terzo (occupazione dello stabilimento o sciopero di altri lavoratori), sempreché tali fatti non siano riconducibili ad una condotta illecita del datore di lavoro o comunque a lui imputabili”.

Più in generale, secondo un orientamento risalente ma valido della Corte di Cassazione, se il lavoratore offre regolarmente la propria prestazione ma il datore di lavoro non è in grado di utilizzarla, il mancato pagamento della retribuzione è giustificato solo quando lo stesso i) non è imputabile al fatto del datore di lavoro, ii) non è prevedibile ed evitabile e iii) non è riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale e iv) neppure a contingenti difficoltà del mercato (Cassazione civile, sez. lav., 15372/2004; Cassazione civile, sez. lav., 11916/1999; Cassazione civile, sez. lav., 08/08/1996, n. 7263).

In particolare, il cd. factum principis ricorre quando il datore di lavoro si trovi nell’impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa a causa di provvedimenti legislativi o amministrativi, motivati dall’obbligo di tutelare interessi generali (come ad esempio il diritto alla salute) in applicazione dei principi generali dell’ordinamento. Secondo la giurisprudenza consolidata gli ordini o i divieti emanati dalle autorità sono suscettibili di determinare l’impossibilità della prestazione qualora i) non siano ragionevolmente prevedibili, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione oppure ii) il debitore abbia sperimentato tutte le ragionevoli possibilità per adempiere regolarmente.

Infine, “non costituiscono causa di forza maggiore e rientrano, invece, nella sfera del rischio imprenditoriale, tutte quelle situazioni ostative riguardanti la persona del datore di lavoro (come una malattia) o la gestione e l’organizzazione dell’impresa, come il calo delle commesse e le crisi economiche congiunturali e strutturali, in presenza delle quali, ove esse non siano rilevanti ai fini della disciplina della Cassa Integrazione Guadagni (ordinaria, straordinaria e in deroga) e dell’Assegno ordinario, il datore di lavoro – salva la possibilità di concordare con i lavoratori una temporanea sospensione del rapporto lavoro – deve scegliere fra la perdita delle maestranze, con recesso dal rapporto ad nutum (nei casi consentiti dalla legge) o per giustificato motivo (ex art. 3 legge n. 604 del 1966) con preavviso ed indennità di anzianità, e il mantenimento delle maestranze medesime, con prosecuzione del rapporto e integrale pagamento della prestazione lavorativa non utilizzata” (Cassazione civile sez. lav., 15/06/1984, n. 3577).