Con l’avvio della cosiddetta “fase 2” e della graduale ripresa delle attività lavorative in tutto il paese, i datori di lavoro sono tenuti ad implementare nuove e specifiche iniziative finalizzate a garantire la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Come noto, sul punto sono già intervenuti due protocolli (rispettivamente in data 14 marzo e in data 24 aprile 2020), condivisi tra il Governo e le parti sociali, contenenti indicazioni in merito alle misure ritenute indispensabili ed obbligatorie per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus COVID-19 (“Protocolli”).

Tra le tante iniziative a carico del datore di lavoro, in primis, ricordiamo che oltre a dover fornire ai lavoratori una informazione adeguata sulle misure necessarie per arginare il rischio di diffusione del COVID-19, lo stesso deve anche adoperarsi affinché sul luogo di lavoro venga rispettata la distanza interpersonale di un metro; per garantire la corretta areazione dei locali; fornire mascherine e altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici, ecc…) ai lavoratori che operino in spazi comuni.  

L’azienda è poi tenuta ad assicurare la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni e di svago; ad adoperarsi al fine di ridurre il più possibile le occasioni di contatto tra fornitori/visitatori esterni ed il personale dare disposizioni affinché i lavoratori, prima dell’accesso, vengano sottoposti al controllo della temperatura corporea e vietare l’accesso qualora la stessa risulti superiore ai 37,5°.

Occorre poi evidenziare anche che, ai sensi dell’art. 2087 del c.c. nonché del d.l. 81/2008, il datore di lavoro, in quanto titolare dell’obbligo di tutela e garanzia della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ex art. 2087 c.c., “… è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Alla luce di quanto precede, non sono pochi i datori di lavoro che si interrogano sulla possibilità e/o sull’obbligo di adottare tutte quelle misure ulteriori che “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” risultano idonee a garantire il livello di tutela massimo esperibile nel momento in cui scriviamo.

Il riferimento, in particolare, è alla possibilità di sottoporre i lavoratori al test sierologico volto all’individuazione degli anticorpi specifici per la diagnosi di infezione da COVID-19. In estrema sintesi, i test attualmente sul mercato consentono di individuare nel sangue dei pazienti sia gli anticorpi che indicano l’avvenuto contagio e l’esistenza di uno “stato infiammatorio” in corso che gli anticorpi che indicano la fine della fase infiammatoria (e contagiosa) e quindi l’esistenza di potenziali difese immunitarie.

Sul punto occorre innanzitutto evidenziare che, alla luce dell’attuale panorama normativo, non esiste alcuna norma che obblighi e/o vieti espressamente al datore di lavoro ad effettuare sui propri dipendenti i predetti test né i tamponi.

Non è però possibile ignorare l’esistenza nell’ordinamento dell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori, il quale vieta gli “accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente” e che, sembrerebbe, negare ogni possibilità di accertamento e quindi anche la possibilità di procedere ai test sierologici di cui sopra.

L’esistenza del predetto articolo, tuttavia, posta la vetustà della norma e la straordinarietà dell’attuale emergenza sanitaria globale, nemmeno astrattamente ipotizzabile nel 1970, a parere di scrive, non esime dall’obbligo di interrogarsi sulla relazione esistente tra: i) la disponibilità di strumenti di tutela dell’ambiente di lavoro ulteriori rispetto ai DPI e potenzialmente in contrasto con

l’art. 5 dello Statuto; ii) la possibilità e/o l’obbligo per il datore di lavoro di adottarli; iii) l’efficacia esimente dell’art. 5 laddove si verifichino contagi nell’ambiente di lavoro evitabili grazie all’utilizzo dei predetti strumenti di cui al punto i).

Posto che, ex art. 2087 c.c. il datore di lavoro risponde in tutti quei casi in cui non abbia adottato tutte le misure che, a fronte delle particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, non sarebbe dunque corretto garantirgli la possibilità di effettuare, nel rispetto di tutte le garanzie previste dalla legge ed in particolare con la mediazione del medico competente, il test sierologico ai propri dipendenti?

Tale misura consentirebbe di garantire ai lavoratori che non hanno in corso l’infezione da Covid-19 un ambiente di lavoro privo di cause di contagio immediato ed ai lavoratori infetti tempestivi interventi di cura.

Naturalmente una simile apertura porterebbe ad interrogarsi anche sulle conseguenze dell’eventuale rifiuto, da parte del lavoratore, a sottoporsi all’accertamento diagnostico: come andrebbe considerato? Alla stregua di una legittima facoltà che esime da responsabilità il datore di lavoro (dato che il rifiuto legittimo consente di sostenere di avere adottato, o tentato di adottare, tutte le iniziative in suo possesso finalizzate a garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro)? Oppure un tale rifiuto dovrebbe avere conseguenze disciplinari e/o comportare l’allontanamento (in smart working o sospensione) del lavoratore?

D’altra parte, in caso di contenzioso derivante da contagio da Covid19 sul luogo di lavoro, il datore di lavoro dovrebbe essere messo nella posizione di poter dimostrare di aver effettivamente adottato ogni misura necessaria e disponibile al fine di garantire la salute e l’incolumità dei propri dipendenti sul luogo di lavoro. E quindi anche il test sierologico più efficace tra quelli presenti sul mercato.

A tale proposito ricordiamo anche che l’infezione da COVID-19 contratta dal lavoratore durante lo svolgimento della prestazione lavorativa è riconosciuta e trattata dall’INAIL come infortunio sul lavoro: qualora dunque dovesse venire

riconosciuta la responsabilità civile del datore di lavoro per la violazione dei suoi obblighi discendenti dall’art. 2087 c.c., l’INAIL, come previsto dall’art.  11 del DPR 1124/1965, potrebbe agire nei confronti del datore al fine di richiedere un rimborso delle somme a qualsiasi titolo erogate a titolo di indennità e di spese accessorie nei confronti del lavoratore.

A meno che non si dica, e dovrebbe forse essere un provvedimento normativo ad hoc a farlo, che è sufficiente ai fini del rispetto dell’art. 2087 c.c. la mera applicazione dei Protocolli ad oggi disponibili e/o delle loro successive modifiche ed integrazioni.

I quesiti sono molti e la discussione potrebbe essere allargata anche ad altri aspetti di egualmente rilevanti.

Tra questi non può essere trascurato il fatto che l’effettuazione di tali test rappresenti un trattamento di dati personali e nello specifico di dati relativi alla salute dei dipendenti, da effettuarsi quindi nel rispetto della disciplina in materia di privacy.

Sul tema del trattamento dei dati relativi alla salute nel contesto lavorativo si era espresso già ai primi di marzo il Garante per la protezione dei dati personali, precisando che, nonostante l’emergenza sanitaria, i datori di lavoro dovevano astenersi dal raccogliere a priori, attraverso specifiche richieste ai singoli dipendenti, informazioni sullo stato di salute degli stessi, insistendo sul fatto che l’attività di prevenzione dalla diffusione del virus Covid-19 dovesse essere svolta unicamente da soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni.

Lo  scenario è in parte cambiato con l’adozione dei Protocolli, che come già evidenziato impongono ai datori di lavoro di adottare misure per contrastare e contenere il virus negli ambienti di lavoro.

Nell’ambito di tali misure, richiamate dalle FAQ del Garante relative al trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblicate il 4 maggio, è consentito ai datori di lavoro di rilevare la temperatura corporea dei dipendenti prima dell’ingresso in azienda, previa informativa sul trattamento dei relativi dati personali.

Gli stessi Protocolli individuano quale base giuridica del trattamento della temperatura corporea l’implementazione di protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’articolo 1, n. 7, lett. d) del DPCM 11 marzo 2020, senza tuttavia precisare in quale delle previsioni di cui all’articolo 9, paragrafo 2, GDPR rientri il trattamento.

In assenza di una espressa previsione dei Protocolli o di altra fonte normativa che imponga o consenta al datore di lavoro di effettuare sui propri dipendenti test sierologici, si pone il problema, qualora il datore di lavoro decidesse di procedere all’effettuazione degli stessi, di individuare la base giuridica del trattamento posto che, ai fini privacy, il riferimento all’articolo 2087 c.c. risulterebbe non sufficientemente specifico.

Si tende ad escludere che possa utilizzarsi quale base giuridica del trattamento quella del consenso degli interessati di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), GDPR, che generalmente non può trovare applicazione nell’ambito del rapporto di lavoro posto che quest’ultimo è caratterizzato da uno squilibrio di potere tra le parti che non consentirebbe al lavoratore di esprimere liberamente il proprio consenso.