Il Decreto Legge n. 23 dell’8 aprile 2020 (c.d. Decreto Liquidità) contiene alcune disposizioni relative alla materia concorsuale. 

Dopo avere rinviato l’entrata in vigore del codice della crisi (art. 5) e dettato una serie di disposizioni per la gestione dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 9), il decreto impone un vero e proprio arresto di oltre tre mesi e mezzo di tutte le nuove procedure fallimentari.

In base all’art. 10 del D.L. 23 sono infatti improcedibili tutti i ricorsi per la dichiarazione di fallimento (art. 15 legge fallimentare) e per l’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa (art. 195 legge fallimentare) o ad amministrazione straordinaria (art. 3 D. Lgs. 270/99) depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020.

Fanno eccezione soltanto le istanze presentate dal pubblico ministero che contengano domanda di emissione di provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio dell’impresa (quali ad esempio sequestro conservativo, nomina di un custode giudiziario, sospensione di delibere societarie).  

La norma decreta quindi una sorta di “tregua fallimentare”, che si sovrappone al più generale regime di rinvio delle udienze e sospensione dei termini già previsto per il processo civile dal D.L. 18/2020 – regime che riguarda anche i procedimenti fallimentari e che è stato prorogato dallo stesso Decreto Liquidità fino all’11 maggio 2020.

L’improcedibilità è disposta per legge e non discende, come solitamente avviene, dalla inattività della parte. Ciò nondimeno, essa deve essere oggetto di una pronuncia giudiziale, come si deduce anche dal terzo comma dell’art. 10 che

menziona espressamente la “dichiarazione di improcedibilità” dei ricorsi. Sulle istanze presentate durante il periodo di “tregua” il giudice dovrà quindi sempre emettere un provvedimento che ne dichiara l’improcedibilità.

D’altra parte l’improcedibilità è solo temporanea, e le istanze possono essere ripropostedecorso il periodo di “tregua”. 

Pertanto allo stato la situazione è la seguente:

  1. Le domande presentate tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, con l’eccezione di cui al punto b), saranno dichiarate improcedibili dal Tribunale, e potranno essere riproposte dopo il 1° luglio 2020. Non è chiaro cosa accadrà qualora la pronuncia non venga adottata, o venga adottata in ritardo: il fatto che l’improcedibilità sia disposta per legge e non dipenda dalla valutazione discrezionale del giudice induce a ritenere che in questi casi le istanze possano essere subito ripresentate, senza attendere la pronuncia di improcedibilità.
  • Le domande presentate tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020 dal pubblico ministero, con istanza di provvedimenti cautelari o conservativi, potranno essere esaminate; a tali procedimenti, e solo a quelli, viene evidentemente riconosciuto quel carattere di urgenza che ne giustifica la trattazione.
  • Le domande da chiunque presentate prima del 9 marzo 2020 e non ancora decise sono procedibili, ma ricadono ugualmente nel regime generale di sospensione dei termini e rinvio delle udienze civili di cui al D.L. 18/2020: le eventuali udienze sono rinviate, ad eccezione dei casi di accertata urgenza, e i procedimenti riprenderanno il loro corso dopo l’11 maggio 2020.
  • Non è chiara la sorte delle domande presentate dal 9 marzo 2020 in poi e già decise all’8 aprile 2020, data di entrata in vigore del D.L. 23/2020: si tratta probabilmente di un caso di scuola, visti i tempi della giustizia ed il regime di sospensione in atto, ma non sono da escludere procedimenti già conclusi in casi di particolare urgenza. In questi casi si potrebbe ipotizzare, per quanto appaia poco ragionevole, una dichiarazione di improcedibilità a posteriori, dichiarata in sede di reclamo.  

Il terzo comma dell’art. 10 prevede una regola volta apparentemente ad evitare che il blocco delle istanze produca conseguenze irreversibili: essa dispone che il periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 non venga computato nei termini di cui all’art. 10 e 69bis della legge fallimentare. 

Si tratta dei termini per la proposizione dell’istanza di fallimento nei confronti di imprese cancellate dal Registro delle Imprese (un anno dalla cancellazione) e dei termini per la proposizione da parte del curatore dell’azione revocatoria (tre anni dalla dichiarazione di fallimento e cinque anni dal compimento dell’atto).

Nel primo caso, qualora il termine dell’anno cada durante o dopo la “tregua fallimentare” esso sarà prorogato per un periodo corrispondente, evitando che il creditore (o il pubblico ministero) decada definitivamente dalla possibilità di presentare istanza di fallimento. Analogamente, il curatore potrà avvalersi di un termine maggiore per la proposizione dell’azione revocatoria.

La norma sembrerebbe ragionevole, se non fosse per un dettaglio: il mancato computo del periodo non opera automaticamente per tutti i procedimenti, ma solo per i fallimenti aperti dopo la dichiarazione di improcedibilitàdi un ricorso presentato nel periodo di “tregua fallimentare”. In altre parole, il creditore che voglia evitare l’imminente scadenza del termine per proporre istanza di fallimento nei confronti di un’impresa cancellata dal Registro delle Imprese dovrà presentare comunque l’istanza nel periodo di “tregua”, ottenere una dichiarazione di improcedibilità e… riproporre l’istanza dopo il 1° luglio 2020!

Si fatica a comprendere il senso di questo meccanismo, che al momento costringe i creditori al compimento di atti processuali che la legge stessa considera, di fatto, inutili.

Come spesso accade, non resta che confidare nella legge di conversione.