Buon Compleanno 231!
Buon Compleanno 231!
Sono oramai trascorsi 20 anni da quando, nel lontano 2001, il Decreto Legislativo 231 faceva il proprio debutto sul piano normativo nazionale con l’intento di provocare una vera e propria rivoluzione dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico: per la prima volta, infatti, veniva messo in discussione il noto brocardo latino “societas delinquere non potest” (le persone giuridiche non possono commettere reati)[1].
Come tutte le rivoluzioni, anche la scintilla accesa dal D.Lgs. 231/2001 ha inizialmente coinvolto un’area limitata, includendo unicamente specifici delitti dolosi. Con il passare del tempo, tuttavia, le fattispecie di reato ricomprese nell’ambito applicativo della norma, vale a dire quelle in grado di generare una responsabilità della società per il fatto illecito commesso nell’interesse o a vantaggio della società da suoi dipendenti o apicali, sono state pian piano ampliate, con conseguente ampliamento dell’elenco dei reati presupposto, che comprendono oggi numerose fattispecie[2]. Particolarmente significativa, nella storia della responsabilità amministrativa degli enti, è stata l’impronta lasciata dall’implementazione del D.Lgs 81/2008 che, sotto l’egida del D.Lgs. 231/2001, ha introdotto un focus particolare in in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Se dunque è vero che le riforme dei principi, come a tutti gli effetti lo è stata la 231, sono utili perché ci costringono a trovare un nuovo (e spesso migliore) ordine, a distanza di vent’anni dalla sua introduzione è ora possibile, per non dire doveroso, guardarsi indietro e redigere un bilancio di quelli che sono state le conseguenze che l’entrata in vigore di questo Decreto ha prodotto.
L’effetto più evidente, probabilmente anche perché è quello di maggior risalto, è senza dubbio quello di aver avviato una sorta di “svolta modernizzatrice” dell’assetto organizzativo delle aziende. L’entrata in vigore del D.Lgs. 231/2001 ha infatti incentivato le aziende ad adottare e implementare un sistema di compliance interna che risultasse (anche all’esterno) serio ed efficace, circostanza che ha condotto ad un generale processo di ammodernamento aziendale, dimostratosi particolarmente utile ai fini della prevenzione dei reati commessi da parte dei propri apicali e dipendenti.
Nonostante la spinta aggiornatrice sia certamente il principale merito della 231, circostanza ben più importante è il fatto che sono state le aziende stesse a rendersi conto dell’utilità dell’implementazione di un modello organizzativo: ciò è quanto emerge dall’indagine condotta da Confindustria nel 2017 secondo la quale tutte le imprese di grandi dimensioni[3] prese in considerazione avevano adottato un modello 231 e solo il 12% delle imprese considerate riteneva l’adozione di un modello poco utile per prevenire la commissione di reati.
Benché dunque una parte delle imprese (ad onor del vero, particolarmente la nicchia di mercato costituita da imprese di grandi dimensioni) abbia dimostrato di aver compreso l’utilità della compliance, il lavoro da svolgere è ancora molto. Infatti, permanendo oggi una facoltatività dell’applicazione del “modello 231”[4], molti enti rifiutano (o, molto spesso, ignorano la possibilità del) l’adeguamento. Al fine di intervenire su tale segmento del mercato, sono stati valutati meccanismi di premialità per quelle aziende che abbiano deciso di adottare un modello organizzativo e che ne abbiano assunto i relativi costi (circostanza che, tra l’altro, costituisce anche un idoneo contraltare rispetto al volto punitivo della norma, che, lo si ricorda, reca pesanti sanzioni per l’impresa che non abbia adottato un modello organizzativo in caso di reato presupposto commesso da dipendenti o apicali).
In particolare, sulla scia di tali valutazioni, alcune legislazioni regionali hanno previsto, tra i requisiti preliminari per l’accesso in settori specifici, l’applicazione della disciplina dettata dalla 231. Ciò è quanto è avvenuto sia da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che individua la presenza del “modello 231” tra gli elementi di valutazione ai fini del punteggio per l’attribuzione del rating di legalità, sia da parte del nuovo Codice degli Appalti, nel quale la conformità agli adempimenti 231 si connota come autonomo requisito reputazionale ai fini dell’attribuzione del rating di impresa maggiormente affidabile per il committente pubblico.
Se, per un verso, dunque, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 231/2001 si è realizzato un innegabile circolo virtuoso tra normativa e soggetti a cui la stessa era rivolta, per altro verso, non può comunque essere negato che le aspirazioni del legislatore del 2001, specialmente in tema di concreta applicazione del decreto, erano ben più elevate.
Infatti, nonostante tutti i segnai di incoraggiamento verso un futuro roseo per il mondo della compliance esposti sopra, non possiamo ignorare come ci si trovi di fronte ad una scarsa attenzione della normativa da parte dei tribunali.
Dai dati raccolti nel 2017 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano emerge come vi siano state solo 29 iscrizioni di enti (-37% rispetto al 2016 e -23,7% rispetto al 2015). Un’interpretazione di tale dato ci viene fornita dal Bilancio di Responsabilità Sociale della Procura di Milano del 2016, nel quale viene individuata la ragione di fondo come il fatto che l’iscrizione della persona giuridica sia ritenuta ancora una valutazione discrezionale, “non apparendo congruo il ragionamento che sino ad oggi si è fatto che, per effettuare l’iscrizione, il PM deve prima verificare l’interesse o l’utilità dell’ente, dovendo tale valutazione seguire e non precedere l’iscrizione (anche per permettere all’ente di difendersi)”.
A prescindere da quanto precede, risulta innegabile come, con il passare del tempo, sempre più aziende si stiano adeguando ai dettami del Decreto, adottando un’applicazione corretta della 231, da ciò spesso ottenendo anche vantaggi indiretti, come ad esempio il miglioramento ed efficientamento delle procedure aziendali passate sotto esame da parte degli ODV.
Ed è proprio questo lo stimolo principale sul quale occorre fare leva per trasmettere la necessità di adeguamento ai dettami della 231. Gli ultimi vent’anni ci hanno infatti dimostrato che il timore della sanzione (che viene spesso percepita come lontana e applicabile solo a terzi) non è di per sé sufficiente a indurre gli operatori del mercato a predisporre i presidi necessari per la propria tutela. Diverso è, però, se tali presidi si rivelano essere anche uno strumento di check up aziendale, utile al miglioramento delle procedure e, verosimilmente, all’abbattimento dei costi, alla tracciabilità delle operazioni e alla regolamentazione dei processi. Solo così il D.Lgs. 231/2001 dimostrerà di essere pronto ad affrontare i secondi 20 anni della propria esistenza: rinnovandosi pur senza tradire il proprio spirito.
[1] Per amore di correttezza, si precisa che il citato brocardo, lungi dal provenire dall’epoca della Roma imperiale, è invero stato coniato solo nel 1881 da Franz von Liszt, penalista tedesco.
[2] Fanno infatti oggi parte dell’elenco dei reati presupposto i reati ambientali, societari, informatici, contro la pubblica amministrazione, infortuni sul lavoro, abusi di mercato, fino a giungere, da ultimo, all’introduzione (tanto agognata) dei reati tributari.
[3] Vale a dire con oltre 250 dipendenti o con fatturato superiore ai 250 milioni di euro.
[4] In base al principio dell’autocontrollo, infatti, non è possibile imporre l’azione di un modello organizzativo ad un ente.