Obbligo vaccinale e libertà di scelta: il rifiuto di vaccinarsi autorizza il licenziamento?
Obbligo vaccinale e libertà di scelta: il rifiuto di vaccinarsi autorizza il licenziamento?
L’avvio della campagna di vaccinazione contro il Covid 19 ha fatto nascere un acceso dibattitto in merito alla possibilità per il datore di lavoro di obbligare i lavoratori a vaccinarsi.
Tra i commentatori sembra si stia consolidando la posizione di chi, oltre a sostenere l’esistenza del potere datoriale di imporre la vaccinazione, ritiene che sussista anche la conseguente possibilità per il datore di lavoro di licenziare – o quantomeno sospendere dal lavoro per inidoneità alla mansione – tutti quei dipendenti che rifiutino la somministrazione del vaccino.
La problematica è complessa e, di seguito, tentiamo di circoscriverne il perimetro per fornire qualche spunto di riflessione.
- Nell’ordinamento italiano non esiste alcun obbligo “generalizzato” di vaccinarsi.
La nostra riflessione parte dall’analisi dell’art. 32, comma 2, Cost., secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
La norma basterebbe ad escludere il potere del datore di lavoro di imporre il vaccino ai propri dipendenti, dal momento che, ad oggi, l’ordinamento giuridico italiano non contempla alcuna norma di legge ad hoc che renda obbligatoria la somministrazione del vaccino contro il virus SARS-COV-2.
Esiste, tuttavia, una vasta schiera di commentatori, sostenitori dell’obbligo vaccinale, che ritiene prevalente il disposto dell’art. 2087 Cod. civ., norma che impone al datore di lavoro ad “adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.
È tuttavia innegabile che l’art. 2087 Cod. civ. sia una norma che “impegna” il datore di lavoro nei limiti dei dati scientifici risultanti dall’esperienza e dalla tecnica. E lo stato delle conoscenze scientifiche, attualmente, sembra ancora ad un livello “embrionale” dal momento che permangono interrogativi rilevanti, quali: quando una persona vaccinata diviene completamente immune? Colui che si vaccina è un c.d. “portatore sano”, ovvero non può contrarre il virus ma può comunque trasmetterlo? etc… etc…
Posto quanto sopra, allo stato attuale, si potrebbe quantomeno seriamente dubitare circa l’idoneità del vaccino a costituire una misura di protezione atta a garantire la sicurezza dell’intero ambiente lavorativo nei termini richiesti dall’art. 2087 Cod. civ.
In ogni caso, l’art. 2087 Cod. civ. rimane una norma di portata generale, inidonea, in quanto tale, a soddisfare la riserva di legge specifica contenuta nell’art. 32 Cost.
Sempre a tale proposito, bisogna ricordare che il Governo ha già emanato varie norme aventi valore di legge – confluite nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro” reso vincolante dall’art. 29-bis del c.d. Decreto Liquidità – che individuano i comportamenti e le misure idonee a prevenire il contagio sul posto di lavoro (es. utilizzo della mascherina, misurazione della temperatura, distanziamento sociale, igienizzazione delle mani, etc.) e che, tra queste, ancora non figura il vaccino.
Peraltro, attualmente, il datore di lavoro si trova nella impossibilità di gestire i tempi e, soprattutto, i modi della somministrazione del vaccino, essendo le decisioni inerenti a tali ambiti prerogative spettanti in via esclusiva all’autorità sanitaria nazionale.
Alla luce di quanto sopra riteniamo di poter escludere, almeno per il momento, l’esistenza del potere del datore di lavoro di obbligare i propri dipendenti a vaccinarsi, con la conseguente illegittimità di un eventuale licenziamento intimato a seguito di un eventuale rifiuto alla somministrazione.
Diverso il discorso in merito alla possibilità di adibire i lavoratori renitenti ad altre mansioni, ritenute più sicure, con conservazione del trattamento retributivo precedente, o ancora disporre il regime di smart working. Se praticabile, tale ultima soluzione, risulta difendibile e, con ogni probabilità, nel momento in cui dovesse configurarsi un obbligo vaccinale, sarà suggerita (se possibile sulla base dell’organizzazione datoriale) per tutti i lavoratori che non potranno sottoporsi alla vaccinazione.
- Un caso a parte: il personale sanitario
Un discorso diverso, a nostro parere, potrebbe essere fatto per il personale sanitario, per il quale il vaccino potrebbe rappresentare un requisito indispensabile per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
In tale contesto, potrebbe ritenersi applicabile l’art. 279, comma 2, D.lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro), che impone al datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, di “adottare misure protettive particolari […] fra le quali la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni dall’agente biologico presente nella lavorazione”.
Quanto affermato deriva dal fatto che, per il personale sanitario, stante la particolarità delle mansioni svolte, nonché dell’ambiente lavorativo di riferimento, l’agente biologico è necessariamente presente nella lavorazione (si pensi, ad esempio, ai laboratori in cui viene studiato il virus), tanto da poter arrivare a configurare un rischio biologico specifico, a differenza della generalità degli altri lavoratori, per i quali il rischio di contagio non deriva direttamente dall’attività lavorativa svolta (non a caso, i Governi di tutti i Paesi hanno disposto che gli operatori sanitari siano i primi a ricevere il vaccino).
In altre parole, in un contesto lavorativo “sanitario”, oltre al rischio generico di contagiare sé stessi (valevole per tutti), si aggiunge il rischio di contagiare i pazienti assistiti, i quali, nella maggior parte dei casi, possono essere soggetti anziani o comunque fragili, affetti, se non propriamente dal virus SARS-COV-2, da altre importanti patologie, e pertanto maggiormente a rischio.
Ecco allora che, in tale ambito, potrebbe richiamarsi il già citato art. 2087 Cod. civ., che fa espresso riferimento alle “particolarità del lavoro”.
In virtù di quanto precede, potrebbe configurarsi, all’interno del comparto sanità, un potere del datore di lavoro di rendere obbligatorio il vaccino.
Ciononostante, sarebbe oltremodo affrettato far discendere automaticamente da tale potere la possibilità di licenziare i lavoratori renitenti, in quanto tale potere disciplinare dovrebbe sempre rappresentare la extrema ratio. Tale opinione si fonda sempre sull’art. 279 che, al comma 2, rimanda all’art. 42 del D.lgs. 81/2008, a norma del quale “il datore di lavoro […] attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute”.
Il datore di lavoro, dunque, dopo aver constatato l’indisponibilità di altre mansioni o l’impossibilità di adottare misure alternative adeguate a tutelare la salute dell’intero ambiente lavorativo (es. smart working, distanziamento, metodi di disinfezione), potrebbe, anziché licenziare, sospendere dal lavoro e dalla retribuzione i lavoratori renitenti in quanto inidonei a svolgere quella determinata professione.
Ad ogni modo, si tratta, è il caso di dirlo, di un’interpretazione estensiva dell’art. 279 D.lgs. 81/2000.
In conclusione, vista la complessità della questione da un punto di vista tecnico-giuridico, a parere di chi scrive è assolutamente dirimente un intervento del legislatore con norme specifiche per i luoghi di lavoro che, per il tipo di lavorazione e/o organizzazione, risultano maggiormente esposti al rischio di contagio: solo tale valutazione preventiva può infatti giustificare l’obbligatorietà della vaccinazione e consentire di configurare un adeguato apparato sanzionatorio legittimamente applicabile ai lavoratori renitenti.